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La dimensione sociale dell’innovazione tecnologica

In questo periodo sono in ritardo su tutto, tra le altre cose sono in debito di una risposta a Paola che mi ha molto opportunamente stimolato ormai da due settimane.

Anche io in qualcuna delle notti insonni di un paio di estati fa mi sono letto con gusto e anche un po’ di sorpresa il libro di Riccardo Luna “Cambiamo tutto”. Oltre a quello che mi aspettavo di trovarci, mi ha favorevolmente colpito per quello che non pensavo di trovarci. 
In particolare l’accento sulla dimensione sociale dell’innovazione tecnologica, che nella narrazione mainstream viene di solito ignorata.

Da quello che scrive Luna e da quello che scrive Paola mi vengono in mente un sacco di filoni di discussione e ragionamento, provo ad abbozzarne alcuni.

1. Il conflitto è la condizione necessaria per la vita e lo sviluppo delle persone e delle organizzazioni. La scommessa è ovviamente quella di fare in modo che il conflitto sia origine di innovazione. A patto ovviamente che il conflitto rimanga sempre sul merito delle cose e non deve mai portare all’annullamento delle tesi e all’attacco personale.
Questo ci riguarda sia come genitori (e segnalo i libri di Daniele Novara come “Litigare fa bene”), sia come militanti, sia come imprenditori, sia come formatori. 
E anche come parte di una coppia.

2. La vera innovazione ha sempre una dimensione sociale. La dimensione sociale che io (e credo Paola) auspichiamo è quella verso un allargamento dei diritti, verso una società delle pari opportunità di partenza, verso il ripristino dell’ascensore sociale. Troppo spesso invece negli ultimi anni l’innovazione ha avuto una dimensione sociale che amplificava le differenze e bloccava l’ascensore. 
Abbiamo iniziato quasi vent’anni fa a organizzare dibattiti sull’impatto dell’internet nell’organizzazione sociale e nella vita delle persone. Se ci avessero detto che l’esito di vent’anni di innovazione sarebbe stata la perfetta combinazione di una somma di monopoli privati con un monopolio pubblico del controllo delle comunicazioni lo avremmo allora considerato il worst case scenario. Ma ci si abitua a tutto.
Questa credo sia una delle sfide principali della nostra generazione che ancora non siamo stati in grado di focalizzare e capire. Figuriamoci di affrontare.

3. Le grandi organizzazioni possono fare innovazione sociale? Possono aprirsi al conflitto? Possono innestare meccanismi di learning by doing?
Questo è un punto cruciale e forse un nodo che non si può sciogliere. Forse le organizzazioni quando nascono si portano dietro un sacro furore che in qualche modo le preserva da alcune storture. Forse quando ormai esistono da molto tempo tendono inevitabilmente a perseguire la loro stessa sopravvivenza. Forse quando una organizzazione è troppo grande per fallire tende ad attirare persone che cercano la sicurezza piuttosto che la sfida dell’ignoto.
Che differenza c’è tra le Società Operaie di Mutuo Soccorso e l’INPS? 
Che differenza c’è tra le aziende energetiche municipali dell’800 (o le cooperative elettriche dell’arco alpino) e le multiutility di oggi?
Che differenza c’è tra le cooperative delle origini e i grandi agglomerati di potere di oggi? 
È possibile metterci mano? O forse non è un po’ inevitabile che a un certo punto si debba azzerare tutto e ricominciare da zero, col rischio (certo) di perdere anche un patrimonio importante? 
E come si fa a decidere quando è arrivato il momento di azzerare?

Ecco, quando mi decido ad aprire un blog ho materiale per un mese 😁

Published incooperazione

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