L’autoproduzione diffusa anche in città salverà l’ambiente
Martedì 4 ottobre il Parlamento Europeo ha ratificato l’Accordo di Parigi sul clima. Grazie a questa decisione si creano le condizioni perché possa definitivamente entrare in vigore. La Cina, l’India e gli USA sono tra i paesi che già hanno ratificato l’accordo impegnandosi a limitare l’aumento della temperatura media terrestre “ben al di sotto dei 2°C”.
Per poter tenere fede a questo obiettivo, entro il 2050 dovrà sostanzialmente cessare l’utilizzo di fonti fossili a fini energetici. Questa transizione avrà necessariamente impatti rilevanti negli assetti economici e sociali oltre che negli equilibri geopolitici. Forse mai nella storia un cambiamento di tale rilevanza è stato deciso durante una conferenza internazionale.
Saranno ovviamente interessati il settore energetico e quello dei trasporti, ancora largamente dipendenti dai combustibili fossili. Verranno poi coinvolti (indirettamente ma in maniera non meno rilevante) l’industria manifatturiera, la produzione agricola, l’edilizia. La forma stessa di città sarà modificata nel profondo.
Nel libro “Civiltà solare – L’estinzione fossile e la scossa delle energie rinnovabili” appena portato in libreria dalle edizioni di Altreconomia, insieme a Fabio Monforti proviamo a mostrare come nella storia degli insediamenti umani le fonti energetiche siano state uno dei principali fattori attorno a cui si è costituita la città. Dalla città del legno e del ferro, a quella del carbone e dell’acciaio fino a quella del petrolio e dell’automobile.
Citando le più autorevoli fonti disponibili e facendo largo ricorso a immagini e infografiche, proviamo a mostrare come la transizione verso un sistema basato prevalentemente sulle fonti rinnovabili sia finalmente a portata di mano. Stiamo iniziando a costruire la città del sole. Ma i contorni concreti di questa transizione, la dimensione reale, sarà il frutto di un processo che non coinvolge solo i ricercatori ma dovrà allargarsi a tutta la nostra comunità. Molte tecnologie sono già disponibili, altre si stanno lentamente affermando, altre devono ancora comparire all’orizzonte. Ma non si tratta solo di una questione tecnologica. Perché la transizione possa compiersi è necessario un cambio di paradigma più complessivo.
Nello studio appena pubblicato “The Potential for Energy Citizens in the European Union”, realizzato dall’istituto di ricerca ambientale CE Delft per conto di varie associazioni, si mostra come entro il 2050 metà della popolazione europea potrebbe produrre energia elettrica e contribuire al bilanciamento della rete gestendo in maniera flessibile – su base individuale o collettiva – la propria domanda di energia. Si tratta di una rivoluzione, lenta ma inesorabile, che ruota attorno ai prosumers, cittadini che passano dall’essere utenti puri del sistema energetico ad attori (anche produttori).
Perché i prosumers possano diventare protagonisti anche in un tessuto urbano fitto, è ad esempio necessario che i condomini possano avere un unico contatore elettrico comune, magari allacciato a un impianto fotovoltaico condominiale e a un eventuale sistema di accumulo. Esattamente come oggi hanno un impianto di riscaldamento centralizzato e le spese vengono distribuite in base ai consumi effettivi dei singoli appartamenti. In questo modo tutte le abitazioni si collegherebbero a un unico impianto dividendosi oneri (bolletta elettrica) e benefici.
L’autoconsumo dell’energia prodotta potrebbe generare vantaggi sia ai condomini sia alla rete di distribuzione. Una comunità elettrica condominiale così organizzata costituirebbe il primo nucleo delle cosiddette smart grid o smart cities. Ma questa possibilità oggi è nei fatti impedita dalle norme vigenti. E troppo spesso l’aggettivo smart, è dedicato solo alle iniziative delle grandi società energetiche, trascurando completamente il ruolo positivo che potrebbero giocare le piccole comunità di cittadini. Questo è solo un esempio di come sia necessario (e inevitabile) cambiare presto approccio.
Più in generale, è urgente chiedersi come si stanno adeguando urbanisti e amministratori alla prospettiva post-carbonio. Ad esempio nella discussione sul destino degli scali ferroviari urbani, qualcuno si sta ponendo il problema di come gestire la logistica senza far uso di mezzi alimentati da benzina e gasolio (obiettivo che l’Unione Europea avrebbe posto ai centri urbani per il 2030)? Abbiamo una strategia che non prevede l’uso della ferrovia e di interscambi urbani o piuttosto (come tutto lascia pensare) non abbiamo alcuna strategia alternativa?
Questi sono solo due esempi di come la transizione andrà a impattare sulla città e i suoi abitanti e di come gli strumenti di analisi e proposta che utilizziamo appaiano ancora inadeguati alla sfida. Siamo pronti a lavorarci?
pubblicato su Arcipelago Milano
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