La tragedia di Cassandra era doppia. Da una parte la possibilità di prevedere il futuro, un peso già difficile da sopportare, dall’altra il destino di non essere ascoltata. La sindrome di Cassandra, cioè la tendenza maniacale al catastrofismo, è una dimensione patologica con cui inevitabilmente rischia di flirtare chiunque si occupi di cambiamento climatico con cura e costanza.
E per complicare il quadro (e togliere ogni speranza) è opportuno ricordare che il cambiamento climatico è solo una delle dimensioni di crisi ambientale con cui ci confrontiamo in questi anni, insieme ad esempio alla sesta estinzione di massa o alla progressiva erosione di suolo fertile. Sono allarmi reali, che conosciamo da tempo, confermati dalla comunità scientifica internazionale nella sua interezza. Come conosciamo da tempo quali sarebbero le misure per limitarne gli effetti. E come conosciamo da tempo le conseguenze del quarantennale lavoro di disinformazione di grandi potentati economici per instillare dubbi e falsi miti.
Davanti all’enormità dei rischi e all’enormità dei cambiamenti necessari sono possibili diversi atteggiamenti. C’è chi rimuove del tutto il problema e, per menefreghismo o per paura, continua a vivere come se nulla fosse. C’è chi si autogiustifica, riconoscendo l’urgenza del problema ma nascondendosi dietro a “se i governi non fanno nulla, quello che faccio io non conta”. C’è chi si isola, cercando di costruirsi un eden privato.
E anche chi si preoccupa sinceramente, rischia di bloccarsi nell’apatia, rifiutando qualsiasi tipo di coinvolgimento, davanti all’enormità delle sfide che ci aspettano. Nessuno di questi atteggiamenti costituisce gran biglietto da vista se davvero vogliamo convincere anche gli altri a fare qualcosa.
Del resto l’idea che anche solo mangiare, abitare, viaggiare, vivere ci renda complici del cambiamento climatico è difficilmente accettabile e sopportabile. Già da tempo qualche filosofo ha parlato di fanatismo dell’apocalisse, etichettando chiunque si preoccupi per il cambiamento climatico e promuova un cambiamento della società come novello millenarista cattolico devoto del pauperismo e della frugalità. È come se pensare che la civiltà umana (come l’abbiamo sviluppata) possa essere responsabile della “fine del mondo” ci renda arroganti, come se invece dovessimo accettare che siamo in realtà troppo piccoli per fare davvero male al pianeta. Ma tutto è relativo, e anche se forse il pianeta, Gaia, potrà sopravvivere all’esistenza e all’estinzione di Homo Sapiens, è proprio la civiltà umana che non potrà durare come l’abbiamo conosciuta. Del resto la pandemia ci ha mostrato come l’idea che semplicemente uscire di casa e parlare con le persone potrebbe renderci degli assassini, sia forse un’idea inaccettabile e insopportabile ma purtroppo vera.
Tutto questo può portare a pesanti conseguenze psicologiche, studiate da tempo in diversi paesi. Le conseguenze negative riguardano sia gli scienziati che studiano il cambiamento climatico, sia i genitori di ragazzi destinati a crescere in un mondo diverso (e che già fin d’ora si angosciano), sia tutti quelli che già oggi sono vittime di disastri ambientali connessi con il cambiamento climatico. Sono quindi nati programmi di supporto specifici. L’Associazione Psicologi Nazionale Australiana ad esempio ha pubblicato una guida per i genitori di bambini e adolescenti che spiega quando e come parlare del cambiamento climatico con i propri figli e quali iniziative prendere o suggerire. Sì, perché solo l’azione rende accettabile l’impensabile.
La speranza è un atto di volontà. Joanna Macy ha proposto di abbracciare la speranza attiva. Nel suo approccio speranza può infatti avere due significati. Possiamo sperare che si avveri quello che desideriamo. Ma così rischiamo di lasciar perdere tutte le volte che le possibilità sono scarse. Oppure possiamo adottare una speranza che ha a che fare con il desiderio. La speranza passiva consiste nell’attendere che altri realizzino ciò che desideriamo. La speranza attiva significa diventare protagonisti nel realizzare ciò che speriamo. “È un processo che possiamo applicare a qualsiasi situazione e prevede tre passaggi chiave. In primo luogo, serve avere una chiara visione della realtà; in secondo luogo, serve capire la direzione in cui vorremmo che le cose si muovessero o i valori che vorremmo vedere espressi; e infine, ci incamminiamo in quella direzione.” È un approccio analogo a quello di Mariame Kaba secondo cui la speranza è disciplina: “Dico sempre alle persone che la speranza non esclude necessariamente la sensazione di tristezza, frustrazione, rabbia o qualsiasi altra emozione. La speranza non è un’emozione, sai? La speranza non è ottimismo.”
Può sembrare un atteggiamento ingenuo, a meno che non siano i cinici a essere i veri ingenui. Rebecca Solnit ha spesso criticato l’atteggiamento di chi non riesce a far tesoro dei risultati positivi delle battaglie che si intraprendono, comprese quelle per il clima e l’ambiente. Anche se i risultati ottenuti possono sembrare marginali, non sono irrilevanti. “Spesso è così che hanno inizio i mutamenti epocali, con tentativi che non riescono a raggiungere i loro obiettivi immediati ma ottengono il risultato di spostare l’asse del dibattito e di aprire la strada ad azioni successive. Queste campagne e i loro risultati sono lungi dal bastare: devono assolutamente crescere e questo significa coinvolgere chiunque creda che ci siano possibilità che vale la pena di cogliere.”
E forse qualcosa del genere è accaduto proprio negli ultimi due anni. Potremmo considerare il 20 agosto 2018 come una data decisiva, quando Greta Thunberg per la prima volta decise di scioperare per il clima sulla base di un semplice assunto: “Perché dovremmo studiare per un futuro che presto non ci sarà più”. Da allora milioni di cittadini, soprattutto delle giovani generazioni, hanno deciso di fare della questione ambientale la questione centrale nel dibattito pubblico. Come se non aspettassero altro: è bastato dire che l’imperatore era nudo.
Prima di Greta, era un momento difficile per i movimenti ambientalisti nel mondo. La vittoria di Trump aveva interrotto il momento magico che, grazie all’accordo tra USA e Cina, aveva portato all’accordo di Parigi di fine 2015. Il cambio di strategia deciso dalla nuova amministrazione statunitense portò come conseguenza uno stallo globale, interrotto proprio dalle manifestazioni dei Fridays for Future.
Se oggi l’Unione Europea decide di dedicare gran parte dei fondi per la ripresa post-Covid alla decarbonizzazione, se ragiona su obiettivi di riduzione delle emissioni del 55% entro il 2030 (in confronto al 1990) è proprio grazie alle manifestazioni per il clima. E dopo mesi difficili si susseguono notizie positive su vari fronti. Le rinnovabili sono reduci da anni di successi in tutto il mondo, sia sul fronte dei costi che su quello dell’affidabilità e sono arrivate a produrre il 40% dell’elettricità utilizzata nell’Unione Europea nella prima metà del 2020. C’è un rinnovato interesse per l’idrogeno, come forma di stoccaggio a lungo termine dell’energia rinnovabile prodotta in eccesso e Airbus ha iniziato a lavorare sui primi aerei ad idrogeno. Tesla ha annunciato batterie per la mobilità più leggere, più compatte e più economiche. Mentre Xi Jinping si impegna per la neutralità climatica della Cina entro il 2060.
Mentre sono centinaia le piccole aziende di estrazione fallite negli Stati Uniti allo scoppiare della bolla del fracking e le grandi multinazionali ridimensionano piani di investimento e sviluppo e provano tardivamente a trovare un’alternativa. Tanto che BP ritiene che il 2020 sia l’anno del picco globale nella domanda di petrolio. E forse oggi (e ancora di più domani) i più disperati saranno proprio i manager e gli investitori ancora intrappolati in aziende fossili, ancora giganti ma ormai sulla via dell’estinzione, come dinosauri dopo la caduta del meteorite.
* Rileggendo il testo mi sono reso conto che tutte le persone che cito parlando di speranza sono donne, mentre i manager e gli investitori fossili sono quasi sempre uomini, Come se un modello di sviluppo unicamente maschile abbia fatto il suo tempo o come se noi maschi avessimo paura del cambiamento. Toccherà riparlarne.
Pubblicato su PAURE
Rivista Q code – numero 3 – novembre 2020
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