Da quasi vent’anni mi occupo di efficienza energetica (soprattutto) e di fonti rinnovabili (in parte), come educatore, formatore, docente, ricercatore, consulente, autore di libri, attivista, cooperatore, amministratore, padre e cittadino. Credo che il referendum del 17 aprile sia un’occasione per ragionare collettivamente sul nostro futuro. Un’opportunità che non abbiamo ancora colto, sommersi dalla troppa propaganda. Provo a fare il punto e a dire la mia.
Perché
siamo chiamati a votare
Per
capire come si è arrivati a questo punto è necessaria una lunga
digressione. Nel 2008 il governo si attribuì (attraverso un decreto
poi convertito in legge) il compito di definire una Strategia
energetica nazionale (SEN)
quale strumento
di indirizzo e programmazione della
politica energetica nazionale. Nelle intenzioni di Silvio Berlusconi
e della sua maggioranza la SEN avrebbe dovuto aprire la strada allo
sviluppo di impianti di produzione di elettricità da fonte nucleare.
Nel 2011 a seguito dell’incidente di Fukushima il governo eliminò i
riferimenti al nucleare. Il
successivo passaggio referendario tra le altre cose cancellò
l’obbligo di realizzare la SEN.
Le
mutate condizioni di mercato non
avrebbero probabilmente mai consentito di realizzare un impianto
nucleare nel nostro paese, in ogni caso l’esito referendario lasciava
aperto un tema: come affrontare la questione degli approvvigionamenti
energetici del nostro paese?
Per questo motivo il governo Monti,
nelle figure del Ministro dello Sviluppo Economico Corrado Passera e
del Ministro dell’Ambiente Corrado Clini, decise di intraprendere
un percorso di consultazione per la definizione di una Strategia
Energetica Nazionale. Se fossimo gufi, potremmo dire che un governo a
scadenza e senza esplicito mandato elettorale non
avrebbe dovuto arrogarsi il diritto di definire una strategia così a
lungo termine (arriva
fino al 2050). Invece siamo ottimisti e apprezziamo il fatto che per
una volta si sia provato a realizzare un
percorso di consultazione dei portatori di interesse per
una questione così rilevante.
Il percorso durò dall’ottobre 2012
(quando venne pubblicato il documento do consultazione) al marzo 2013
(quando fu pubblicato il documento finale). La Strategia
Energetica Nazionale: per un’energia più competitiva e
sostenibile si
basa su sette priorità che comprendono ad esempio l’efficienza
energetica e lo sviluppo delle fonti rinnovabili ma anche lo sviluppo
del mercato del gas e della raffinazione dei prodotti petroliferi.
La
pubblicazione della SEN sollevò
molte critiche e
vista oggi fa quasi tenerezza: “ci si attende che le rinnovabili
diventino la prima fonte nel settore elettrico al pari del gas con
un’incidenza del 35-38%”. Questo era l’obiettivo al 2020. Ma già
nel 2014 (cioè solo un anno dopo la pubblicazione della SEN) le
rinnovabili hanno prodotto il 37,5% del consumo interno lordo di
elettricità.
Quindi secondo la SEN non dovremmo più realizzare impianti
rinnovabili per i prossimi cinque anni: non scherziamo!
Ma forse
il punto più controverso della SEN fu l’inserimento tra le priorità
della cosiddetta “Produzione sostenibile di idrocarburi nazionali”.
Da quel momento infatti ebbe inizio una serrata campagna di
promozione della ricerca ed estrazione di idrocarburi nel nostro
paese, nonostante la stessa SEN dicesse che le riserve certe di
gas e petrolio nel nostro paese fossero pari a 126 milioni di TEP e
quindi inferiori al consumo di un solo anno (pari a 135 milioni di
TEP). La SEN parla anche di “risorse possibili e probabili” pari
a 700 milioni di TEP e quindi sufficienti a coprire i consumi del
nostro paese per 5 anni. Ma
nella nomenclatura internazionale le
riserve possibili sono quelle che hanno più del 50% di possibilità
di essere estratte in maniera economicamente conveniente, quelle
probabili hanno meno del 50% di possibilità di essere convenienti.
Se consideriamo che il
prezzo del petrolio nel 2013 era compreso tra 100 e 120 dollari al
barile mentre oggi
è pari a circa 40 dollari,
capiamo perfettamente come il concetto di “economicamente
conveniente” sia estremamente labile. Le stime sulle riserve
inserite nella SEN se venissero rifatte ora andrebbero
necessariamente riviste al ribasso.
Lo
Sblocca Italia
In
ogni caso nel 2013 era partita la rincorsa delle fossili che trovò
il suo punto più alto nel novembre 2014 con la conversione in legge
del decreto Sblocca Italia. Il testo approvato dalle camere è lungo
e articolato e riguarda diverse questioni, dalle reti autostradali
alle telecomunicazioni, dal dissesto idrogeologico al rilancio
dell’edilizia, dal piano su porti e aeroporti alla bonifica di
Bagnoli.
Il capo IX (articoli 36-39) è dedicato alle Misure
urgenti in materia di energia (e sarebbe interessante discutere
sull’urgenza di tali misure, ma lo faremo un’altra volta). In estrema
sintesi, per
quello che riguarda lo sfruttamento degli idrocarburi,
il decreto, dichiarando
di pubblica utilità tutte le opere connesse con lo sfruttamento
delle risorse fossili, semplificava
gli iter autorizzativi togliendo
potere alle regioni e favorendo gli espropri di terreni privati a
favore delle grandi imprese petrolifere. Di fatto, dopo lo Sblocca
Italia era più semplice ottenere l’autorizzazione per un impianto di
estrazione di petrolio in mare che non quella per un impianto eolico.
Dieci
regioni per sei referendum
Queste
modifiche legislative, introdotte senza passare da una modifica
costituzionale, aprivano un conflitto di attribuzione con le regioni.
Inevitabilmente questa scelta ha portato a una
serie di ricorsi alla corte costituzionale (presentati
da sette regioni e dalle due provincie autonome di Trento e Bolzano)
su vari contenuti del decreto. In materia energetica lo Sblocca
Italia ha catalizzato l’azione di diversi comitati locali che, uniti
in un coordinamento nazionale, hanno lavorato alla definizione di sei
quesiti referendari che intervenivano complessivamente sulla materia
della cosiddetta coltivazione di idrocarburi.
I
sei quesiti sono stati adottati da dieci consigli regionali nel
settembre 2015 dopo
che la campagna referendaria di Possibile (che comprendeva anche due
quesiti in materia) aveva sollevato grandi entusiasmi senza però
arrivare a raggiungere le 500.000 firme necessarie alla convocazione
del referendum. Giova ricordare l’elenco delle regioni promotrici
Abruzzo (poi sfilatosi), Basilicata, Calabria, Campania, Liguria,
Marche, Molise, Puglia, Sardegna e Veneto. Se escludiamo Liguria e
Veneto, in tutti gli altri otto consigli regionali la maggioranza
comprende il Partito Democratico (che ne esprime in tutti i casi il
presidente della giunta).
In ogni caso il governo non è stato a
guardare e nel maxi
emendamento alla legge di stabilità 2016, su
cui ha posto la fiducia,
ha introdotto una serie di modifiche alla normativa con l’intenzione
di evitare il confronto referendario. Quindi, dopo aver
approvato norme discutibili in un decreto (che la Costituzione
prevede solo in i casi straordinari di necessità e urgenza) il
governo un anno dopo mette la fiducia su un provvedimento che le
cancella. Anche qui è interessante notare come, a valle del
maxiemendamento, la legge di stabilità 2016 (approvata
definitivamente il 28 dicembre 2015) sia composta di un
unico articolo con novecentonovantanove commi.
Novecentonovantanove commi che ovviamente riguardano materie
diversissime andando per lo più a intervenire su testi di legge
esistenti. E
sappiamo come va in questi casi quando c’è da infilare un
emendamento. Insomma
un bel casino.
Su
cosa si vota
Dopo
le modifiche legislative approvate cinque dei sei quesiti sono stati
cancellati: su cinque quesiti i comitati e le regioni hanno quindi
già vinto. È
pero rimasto un quesito, riformulato dalla corte di cassazione.
In pratica si voterà su un referendum che non è stato chiesto da
nessuno.
Con la legge di stabilità 2016 è stata sostanzialmente
ripristinata la normativa precedente, sia per quello che riguarda gli
impianti (vecchi e nuovi) sulla terraferma sia per quello che succede
oltre le 12 miglia dalla costa, pari a circa 22 km. È importante
ricordare che la zona in cui l’Italia ha diritti sovrani sulla
gestione delle risorse è ben più ampia (ad esempio nel mare
Adriatico arriva fino a metà della distanza con gli altri paesi
costieri). La legge di stabilità ha peraltro vietato le nuove
autorizzazioni entro il perimetro delle 12 miglia, cioè nelle
cosiddette acque
territoriali.
Ma è mantenuta la possibilità di ricerca ed estrazione di
idrocarburi (gas e petrolio) per le concessioni attive. In questo
caso le attività possono proseguire “per la durata di vita utile
del giacimento”. Se si fossero accettate le richieste delle regioni
anche su questo punto non si sarebbe neppure andati a votare (e io
non vi ammorberei con questo lungo papiro). E invece.
Cos’è una
concessione? Quando un bene è nella disponibilità della pubblica
amministrazione ma questa non lo utilizza direttamente, ne può
concedere l’uso o lo sfruttamento a un privato. Di solito a fronte di
questo sfruttamento il concessionario (cioè chi ha ottenuto la
concessione) dovrà corrispondere allo stato una qualche forma di
onere economico. Nel caso degli idrocarburi sono imposte le
cosiddette royalties.
La normativa europea in materia stabilisce
che l’estensione e la durata delle concessioni debbano “essere
limitate in modo da evitare di riservare ad un unico ente un diritto
esclusivo su aree per le quali la prospezione, ricerca e coltivazione
possono essere avviate in modo più efficace da diversi enti”
(Direttiva 94/22/CE). Quindi la norma attualmente in vigore appare in
contrasto con il diritto comunitario e potrebbe portarci a una
procedura di infrazione (del resto questo è quello che si rischia
quando si fanno le leggi di corsa).
Cosa
succede se vince il sì?
Semplicemente
le concessioni avranno la durata prevista in origine. Non è quindi
assolutamente vero che venga provocato un danno ai concessionari:
quando hanno ottenuto la concessione sapevano di poter sfruttare quel
pozzo per un certo numero di anni e hanno valutato che l’investimento
necessario fosse economicamente giustificato. Se si ripristina la
situazione precedente non si genera un danno ma si elimina un
profitto ingiustificato.
Peraltro il concessionario è tenuto, al
termine della concessione, a realizzare le opere di ripristino
ambientale, che ovviamente costituiscono un costo. Senza una scadenza
definita quindi si ha un
incentivo a ritardare il più possibile l’esaurimento del giacimento
per ritardare i costi di ripristino.
Di
quanto gas e di quanto petrolio stiamo parlando?
Le
concessioni in essere all’interno del perimetro delle 12 miglia sono
normalmente attive da diversi anni. Sia quelle già scadute sia
quelle non ancora scadute hanno raggiunto il massimo della produzione
negli anni ’90 e da almeno 15 anni stanno quindi diminuendo
progressivamente la loro produzione. Secondo
ASPO Italia stiamo complessivamente parlando del 26% circa della
produzione nazionale di gas e del 9,1% della produzione nazionale di
petrolio (il
resto avviene a terra oppure oltre le 12 miglia marine). Se li
paragoniamo ai consumi nazionali stiamo parlando del 3,2% dei consumi
di gas e del 1,1% dei consumi di petrolio. Le concessioni andranno in
scadenza in un periodo compreso tra il 2016 e il 2027, quindi
l’effetto nella diminuzione della produzione non è istantaneo e
abbiamo tutto il tempo di intervenire.
Peraltro i consumi di gas e
di petrolio sono in diminuzione costante da diversi anni. Secondo
i dati di Unione Petrolifera tra il 2005 e il 2014 i consumi di gas
sono diminuiti del 27% e quelli di petrolio del 33%. Quindi
una riduzione dei consumi compresa tra l’1 e il 3% in dieci anni, non
dovrebbe costituire un problema ma un’opportunità.
Quali
sono gli altri effetti del referendum?
C’è
spesso la percezione diffusa che lo sfruttamento degli idrocarburi
costituisca una ricchezza comune, ma così non è. I concessionari
sono i proprietari di tutto quanto viene estratto, fatto salvo quanto
viene versato allo stato, alle regioni e ai comuni come
royalties. Secondo
i dati del ministero, tra il 2008 e il 2015 le aziende che estraggono
petrolio e gas nel nostro paese hanno versato mediamente circa 305
milioni di euro di royalties all’anno a
governo regioni e comuni, corrispondente a 5 euro e 3 centesimi per
ogni italiano. Grossolanamente con la vittoria dei sì dovremmo
passare da 5 euro e 3 centesimi a 3 euro e 70 centesimi di qui al
2027 e tutto questo ammesso che la produzione nazionale possa
continuare per il resto inalterata, cosa
che appare altamente improbabile,
visto che sta calando costantemente da molti anni.
Ovviamente le
aziende concessionarie pagano anche le tasse (come fanno tutte le
altre aziende, ci mancherebbe altro) ma anche considerando le
tasse non
arriviamo a 15 euro a testa all’anno e
quindi il danno economico causato dal referendum non supera i 4 euro
l’anno a testa (sempre distribuito in 10 anni).
Un altro effetto
evidenziato da molti è quello sull’occupazione. Sono state diffuse
stime diverse in cui si parla di decine di migliaia di posti di
lavoro complessivamente o di oltre 6000 posti di lavoro solo in
Emilia Romagna in due anni. Ma come sono stati fatti questi
conti?
Il Censimento
Industria e Servizi 2011 ci
dice che complessivamente in Italia gli occupati nel settore
estrattivo (oil and gas) erano circa 13 mila, scesi a poco meno di 12
mila nel 2014 secondo Eurostat.
Secondo
Assomineraria si parla complessivamente in Emilia Romagna di “quasi
40.000 addetti tra compagnie O&G, indotto e fornitura di beni
collaterali”.
Difficile dire quanti di questi siano impiegati nelle piattaforme
entro le 12 miglia, visto che nel conto vengono messi anche i
dipendenti di aziende che sono attive nelle forniture all’estero (e
non si capisce in che modo dovrebbero essere interessati da una
eventuale vittoria del sì).
Secondo lo studio
“Unioncamere-SI.Camera,
Quarto Rapporto sull’Economia del Mare, 2015”
complessivamente l’industria estrattiva marina in tutta Italia conta
circa 6000 impiegati nel 2014. Ricordiamo che il referendum riguarda
circa la metà delle estrazioni marine e che le concessioni si
esauriranno in dieci anni.
Peraltro il settore estrattivo italiano
è in grossa crisi, indipendentemente dal risultato del referendum.
Il calo della produzione nazionale di gas e di petrolio è un fatto
indiscutibile ormai da diversi anni anche se non assume le dimensioni
catastrofiche a cui si assiste negli USA (140
mila posti di lavoro persi) o
in Canada (100
mila posti persi).
Inoltre,
l’industria estrattiva è tipicamente una industria capital
intensive.
Nel già citato rapporto di Unioncamere si
può notare come di tutti i settori dell’economia marina l’industria
estrattiva sia quella che produce meno posti di lavoro a parità di
valore aggiunto. Per ogni milione di euro di valore aggiunto i vari
settori analizzati sono in grado si produrre da un minimo di 13
(movimentazione di merci e passeggeri) a un massimo di 25 posti di
lavoro (servizi di alloggio e ristorazione) mentre l’industria
estrattiva ne produce solo 2,5.
Se allarghiamo lo sguardo
e confrontiamo
i posti di lavoro prodotti dal settore delle fonti fossili rispetto a
quelli creati dagli investimenti in
efficienza energetica o in rinnovabili i risultati non sono
equivocabili. Le stime possono
variare a seconda del paese analizzato o
a seconda dell’istituto che le realizza ma in tutti i casi, sia che
si ragioni a parità di investimenti sia che si ragioni a
parità di energia prodotta (o risparmiata) qualsiasi
investimento in rinnovabili o in efficienza energetica produce più
posti di lavoro di quanti ne produca un investimento in fonti
fossili. E sia
in Canada, sia
negli Stati Uniti sembrano
aver capito la
dimensione delle sfide e delle opportunità.
Del
resto mio nonno vendeva carbone che a Milano si usava per
riscaldarsi. Almeno fino
a quando arrivo la giunta Aniasi che
ne ridusse l’uso senza troppo preoccuparsi dei posti di lavoro
persi.
Quali
sono le ricadute ambientali?
Ogni
attività umana provoca effetti diretti o indiretti sull’ambiente. È
complicato stabilirne precisamente gli impatti, soprattutto quando si
ragiona in termini di rischio, ma proviamo ad andare con
ordine.
Sicuramente le normali attività di estrazione (anche in
assenza di incidenti) provocano un aumento nella concentrazione delle
sostanze inquinanti sui fondali in prossimità delle piattaforme
estrattive. Per i dati finora resi pubblici (che
riguardano solo 34 dei 135 impianti attivi)
anche dove sono stati superati i valori di legge non
sembrano esserci particolari rischi per la salute umana o per
l’ecosistema marino.
Quali
rischi ci sono in caso di incidente? Come già sottolineato il
referendum riguarda soprattutto impianti che estraggono gas. In caso
di incidente vi è evidentemente un
rischio potenziale per i lavoratori impiegati ma
sostanzialmente in
caso di fuoriuscita di metano i rischi ambientali sono tutto sommato
limitati e
riguardano soprattutto gli impatti sui cambiamenti climatici (il
metano è un gas con un potente effetto serra decine
di volte superiore rispetto a quello dell’anidride carbonica).
Se
invece la
fuoriuscita riguarda il petrolio ovviamente l’impatto è
maggiore.
Quindi
l’estrazione è a impatto zero? La
subsidenza è quel fenomeno naturale per cui il terreno si abbassa.
Questo fenomeno può essere accelerato dalle attività umane ad
esempio dall’emungimento di acqua dalle falde sotterranee. Venezia
tra gli anni ’50 e ’60 si abbassò di circa 10 cm a
causa dell’utilizzo di acqua di falda negli impianti industriali di
Marghera che infatti fu poi sospeso.
La subsidenza di per sé non
costituisce un grave problema eccetto che nelle località costiere
dove questo fenomeno si somma al cosidetto eustatismo, cioè al fatto
che il livello del mare tende ad alzarsi. E sappiamo tutti bene che i
cambiamenti climatici stanno provocando un
generale innalzamento del livello dei mari.
La somma dei due fenomeni determina la perdita di litorali e spiagge
che vengono inevitabilmente ricoperti dal mare (e il cui ripristino
comporta ingenti costi per la collettività).
Ma cosa c’entrano i
giacimenti di gas? Anche l’estrazione di gas può determinare
un’accelerazione dei fenomeni di subsidenza. Ad esempio nella zona di
Ravenna la
subsidenza osservata sembra interamente riconducibile all’estrazione
di acqua ma
l’Agenzia Regionale per l’Ambiente fa notare come il modello adottato
per l’interpretazione del fenomeno non funziona “nella fascia
direttamente affacciata al mare (per es. l’area critica di
Cesenatico) per la quale bisogna individuare altri fattori
responsabili del fenomeno per spiegare i valori di subsidenza
effettivamente misurati”. Guarda caso si parla di una zona dove
sono presenti molti dei giacimenti su cui siamo chiamati a votare il
17 aprile.
Anche se non è possibile dimostrare un nesso causa ed
effetto certo, è chiaro come ogni estrazione di gas in una zona
costiera intervenga proprio dove
il fenomeno della subsidenza può causare gli impatti maggiori.
In
conclusione: per questo voto sì
Ci
sono almeno tre motivi per cui mi sono convinto a votare sì e
nessuno di questi ha a che fare con il populismo o con la guerra al
governo Renzi. Anzi lo faccio per il bene del governo (non è il
migliore dei governi possibili, ma è pur sempre il governo del
mio paese).
Il primo motivo è che ritengo inaccettabile il
trattamento di favore a cui sono sottoposti i concessionari. Come già
ho ricordato, una concessione senza scadenza secondo me è contraria
al diritto europeo. Una concessione senza scadenza non è una
concessione. Vorrei evitare il rischio che il nostro paese sia
sottoposto a una procedura di infrazione da parte della Commissione
Europea a causa della violazione della direttiva relativa alle
condizioni di rilascio e di esercizio delle autorizzazioni alla
prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi.
Il
secondo motivo è il fatto che serve una definizione precisa delle
priorità nella politica energetica di questo paese. Nel corso del
2015 c’è stata una inversione di rotta rispetto a quanto previsto
dallo Sblocca Italia. Ma senza un pronunciamento popolare il governo
potrebbe tranquillamente cambiare la normativa per la terza volta. In
caso di vittoria del sì il quadro cambierebbe.
In pratica io
voglio aiutare il governo a fare bene quello che si è già impegnato
a fare alla fine del 2015 (cambiando idea rispetto al 2014). Questo
potrebbe anche costituire un utile preambolo a una nuova strategia
energetica nazionale che appare urgente indipendentemente dal
responso delle urne.
Il terzo motivo è più generale. A dicembre
l’Italia ha sottoscritto l’accordo
di Parigi insieme ad altri 194 altri paesi.
Questo accordo prevede che vengano realizzati dai paesi firmatari
tutti gli interventi necessari per mantenere l’aumento di temperatura
media ben al di sotto di 2 gradi centigradi. Per poter ottenere
questo risultato è necessario ridurre il più possibile i consumi di
combustibili fossili nel minor tempo possibile. In termini pratici
ciò significa che ci
siamo impegnati a lasciare sotto terra la gran parte delle riserve
certe di idrocarburi.
Chi ha fatto i conti dice che dobbiamo evitare
di estrarre l’82% del carbone, il 49% del gas naturale e il 33% del
petrolio che già sappiamo di avere.
Spesso
questi accordi internazionali sono percepiti come qualcosa che va ben
al di sopra delle nostre teste, qualcosa che attiene all’oscuro
lavoro notturno di una banda di burocrati che ha poche connessioni
con la realtà. Se vogliamo dare più forza a questo accordo quale
migliore occasione di un referendum popolare? È vero che il quesito
riguarda una questione tutto sommato marginale, ma è una questione
che inevitabilmente è inquadrata in un contesto più ampio. In
pratica abbiamo l’occasione di guardarci negli occhi e impegnarci
reciprocamente a fare quello che serve per migliorare la qualità
della vita di tutti. Daremo peraltro più forza al governo nel
percorso verso il raggiungimento degli obiettivi per cui si è
impegnato a Parigi. Potremmo per una volta dimostrare di essere una
comunità capace di prendersi un impegno condiviso facendoci carico
tutti assieme delle conseguenze delle nostre scelte.
Ma forse il motivo vero per cui voterò sì alla fine è solo uno. È il fatto che anche io come la contrammiraglio Grace Hopper sono convinto che la frase più pericolosa di tutte sia: abbiamo sempre fatto in questo modo.
pubblicato su Gli Stati Generali
Sii il primo a commentare