PREAMBOLO
Scena uno.
Una coppia tra i sessantacinque e i settanta. Hanno lavorato una vita, entrambi. Almeno dodici ore al giorno in negozio, sei giorni a settimana. A dicembre sette giorni su sette.
Prima un fruttivendolo, poi, da metà degli anni ’80, un bar. Sono arrivati ad avere quattro dipendenti, una piccola impresa.
Ora si sono ritirati. Non gli manca niente ma non hanno certo accumulato un tesoretto. Solo qualche anno fa hanno subito un accertamento dell’agenzia delle entrate, conclusosi con una multa pesante. Non avendo da parte grandi risparmi, hanno dovuto accendere un mutuo per poterla pagare.
Possiedono la casa in cui abitano, la vecchia casa della famiglia di lei in una cascina brianzola e qualche piccolo pezzo di terra, che di solito affittano per due lire ai contadini del posto.
D’improvviso il comune decide che una parte di questi terreni diventi edificabile: è come vincere al totocalcio senza aver mai giocato la schedina. Si ritrovano, senza aver fatto nulla, con più soldi di quanti ne abbiano accumulati dopo una vita di duro lavoro. La lottizzazione è in convenzione, se fosse stata libera da vincoli, il premio sarebbe stato ancora più grande.
Scena due.
Una piccola associazione di quartiere, in uno dei quartieri periferici di Milano dove il verde è solo un desiderio, decide di costituire una cooperativa per realizzare la casa dei sogni.
Siamo alla fine degli anni ’80 e il progetto si ispira a certe realizzazioni d’avanguardia realizzate in della Germania Ovest. Edifici a basso impatto ambientale che adottano soluzioni per l’efficienza energetica e integrano il verde e spazi condivisi nelle loro realizzazioni.
Trovano un’area dismessa disponibile. Propongono al comune la bonifica dell’intero lotto. Un terzo del terreno verrà utilizzato per costruire il nuovo edificio. I due terzi restanti ospiteranno un parco pubblico che verrà gestito per dieci anni a spese della cooperativa e poi ceduto al comune a parziale scomputo degli oneri di urbanizzazione.
La variante al piano regolatore arriva dopo quasi dieci anni, ma il cantiere è abbastanza rapido e dal 2001 cento famiglie abitano in un edificio a basso consumo energetico, quando nessuna legge lo richiedeva.
Questi appartamenti, pur utilizzando soluzioni all’avanguardia e materiali ecologici, sono costati ai soci meno di 1.500 € al metro quadrato contro i 2.250 € richiesti all’epoca dal mercato immobiliare in quella zona, per edifici vecchi e inefficienti.
Non c’era bisogno di Thomas Piketty per sapere che la storia degli ultimi quaranta anni è la storia dell’aumento delle disuguaglianze economiche. In Italia dal punto di vista della distribuzione della ricchezza, la rendita immobiliare è stata una delle leve che hanno drenato ricchezza dal ceto medio verso la fetta più ricca della popolazione italiana, è stato uno dei principali strumenti di allargamento ingiustificato dei patrimoni.
Non ci sono solo i Berlusconi e i Ligresti, i Coppola e gli Zunino. Spessissimo i costruttori hanno fatto fortuna non grazie al valore oggettivo delle loro realizzazioni, ma semplicemente acquistando terreni agricoli che poi diventavano edificabili.
Da quando i comuni possono utilizzare gli oneri di urbanizzazione per la spesa corrente, si è creato un incentivo perverso alla costruzione di nuovi edifici su terreni agricoli, operazione sicuramente più semplice dell’intervento su aree dismesse. In tantissimi comuni si assiste all’estensione dell’edificato e al contemporaneo degrado di zone abbandonate dalle attività produttive o dai residenti.
Per ovviare a questa situazione di lose-lose, Andrea Bonessa propone di eliminare gli oneri di urbanizzazione in caso di interventi per la demolizione e la successiva ricostruzione.
A prima vista la proposta può risultare interessante, ma se ragioniamo in termini di distribuzione della ricchezza, una modifica del genere all’ordinamento a chi porta benefici e chi danneggia?
I beneficiati sono i detentori delle proprietà attualmente dismesse. Quando un’impresa o una banca acquisisce un’area e la inserisce tra i beni patrimoniali, dal punto di vista contabile l’area mantiene il proprio valore. Anche se nella realtà, col passare del tempo il valore di mercato dell’area inutilizzata dovrebbe diminuire, riconoscere tale perdita di valore introdurrebbe un segno meno nei bilanci dei proprietari.
Quindi per un proprietario è meglio tenere un’area inutilizzata e rimandare il problema piuttosto che venderla a un prezzo inferiore al valore contabilizzato. L’area può arrivare a costituire un problema per la collettività, o addirittura un costo quando la forza pubblica deve intervenire per sgomberare i senza tetto che ne hanno fatto la loro dimora. Ma questo non è un problema per il proprietario.
Una proposta come quella di Bonessa, porterebbe a salvaguardare innanzitutto il patrimonio, non necessariamente l’impresa e il lavoro. Il danno verrebbe alle casse comunali e di conseguenza (direttamente o indirettamente) ai servizi offerti dall’amministrazione ai propri cittadini. Se il comune deve effettuare lavori per adeguare la fognatura o l’acquedotto alle nuove esigenze, non potendo contare sugli oneri versati, cercherà risorse a discapito di altri servizi primari altrettanto importanti. Spesso alle spese delle fasce più povere della popolazione.
L’ESPROPRIO PUÒ ESSERE UNA MISURA LIBERALE
Ma altre possibilità sono aperte per promuovere le riqualificazioni urbane, alcune previste direttamente dalla Costituzione della Repubblica Italiana. L’articolo 42 regola la proprietà privata e prevede che la proprietà privata possa essere, “nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale.”
Quanto previsto dalla costituzione non c’entra nulla con l’ideologia comunista, ma è una misura prettamente liberale, dove si vuole fare in modo che i legittimi diritti dei singoli non degenerino in posizioni dominanti che portino a danneggiare gli altrettanto legittimi diritti della collettività, che non è altro che un insieme di molti singoli.
Si può espropriare per realizzare un pozzo petrolifero, si può espropriare per far passare una linea ferroviaria o un’autostrada. L’indennizzo riconosciuto ai proprietari non è mai relativo al teorico valore che potrebbe derivare dal possesso di quell’area, ma un semplice rimborso. Si veda ad esempio quello che sta per succedere nelle terre del Lugana, presto devastate per il passaggio della linea ad alta velocità Milano-Venezia.
Perché sembra così strano che si possano espropriare edifici abbandonati o aree dismesse se i proprietari non provvedono per tempo a destinarli a nuovo uso?
In questo senso pare infinitamente più innovativa e adeguata alle esigenze del tempo corrente la misura prevista dal regolamento edilizio che il Comune di Milano ha recentemente approvato.
Tale misura andrebbe estesa a tutto il territorio nazionale, almeno per vedere di nascosto l’effetto che fa. Peccato che questo ben difficilmente potrà avvenire, almeno finché il ministro Lupi manterrà il suo posto nel governo della Repubblica. Lupi, le cui idee sull’urbanistica sono note da quando fu lui stesso assessore all’urbanistica del Comune di Milano, ha predisposto recentemente un disegno di legge di riforma della materia urbanistica che recita testualmente “Il governo del territorio è regolato in modo che sia assicurato il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata, la sua appartenenza e il suo godimento”.
E questo fa tremare le vene dei polsi considerando che la legge di conversione del cosiddetto decreto Sblocca Italia prevede che venga adottato un modello di regolamento edilizio nazionale a cui i singoli comuni si dovranno adeguare. Dobbiamo quindi attenderci a breve un esproprio del regolamento edilizio comunale del Comune di Milano? La sinistra non ha proprio nulla da dire su questi temi? Dobbiamo continuare ad assistere impunemente all’esaltazione della rendita ingiustificata o possiamo tornare a fare di questo tema un tema di promozione economica e sociale diffusa, come nel secondo dopoguerra?
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